La
casa è nel centro di Tirana,
completamente allagato, immerso nel fango. Passiamo tra migliaia di macchine
che sfrecciano seguendo un percorso non segnato tra le buche e le pozzanghere.
I pedoni attraversano diagonalmente la piazza, senza seguire il ritmo
dei semafori che sono una pura formalità. In un vicolo la strada
si ferma e scendiamo. La casa al numero 9 è dignitosa, ci accolgono
in tanti. Lingue sconosciute, solo un uomo molto alto, dall’aspetto gentile,
si sforza di parlare in inglese. Poi cede alla tentazione ed è
un fiume di parole in kosovaro, di cui per il momento non capisco che
poche terribili onomatopee. La sua storia di profugo è la più
fortunata tra tutte quelle che ho ascoltato direttamente. E’ esemplare
nella sua brutale semplicità. E’ il comun denominatore di 270
mila (al momento in cui scrivo) profughi dalla ex Yugoslavia.
Hidaverdi , professore di pedagogia e filosofia al liceo di Peja (ci
tiene che non si dica Pech che è il nome in serbo), è arrivato
con sua moglie, 45 anni, assistente sociale, e i suoi tre figli, due maschi
e una femmina (nomina prima i maschi e poi la femmina anche se lei è
la più grande).
Ecco in breve la loro fortunata storia: mentre lui era a casa con i figli,
domenica 28 marzo, la moglie tornava dal mercato con sottobraccio il
pane.
Vede per strada e nel fiume che costeggia la loro casa, alcuni cadaveri.
Giovani, riversi con la testa all’indietro, come se fossero seduti con
le gambe in acqua. Si affretta. Giusto in tempo per trovare la polizia.
Mascherati alcuni individui danno aloro 10 minuti per andarsene.
Il marito corre dal vicino, un amico serbo, ma… ‘non posso garantirti
niente’, gli risponde, comprensibilmente. Intanto Sabiha, la moglie,
mette quanto può nelle valige, vestiti pesanti (fuori piove), oggetti,
ricordi, documenti, denaro. Carichi come muli obbediscono: vanno
alla piazza principale. E’ gremita di gente che si cerca, di poliziotti
che urlano. In una macchina un pacco di cartelli: ‘si vende’. Hidaverdi
pensa a tenere tutta la famiglia unita, a non disperdersi,. Si consulta
con gli occhi con gli amici e i parenti che incontra. Qualche colpo di
pistola li convince a mettersi in fila ordinatamente. Ci sono camion militari
scoperti e pullman. Hidaverdi è un uomo fortunato, sale sul pullman
coperto. Insieme a lui trecento persone una sull’altra (letteralmente).
Tre persone anziane moriranno durante il tragitto. Via verso il confine.
5 ore sul pullman, scortato da blindati e carri armati. 5 ore senza fermarsi
mai, senza potersi muovere.
Alle 7 di sera, arrivano a 10 km dal confine con l’Albania, il famoso
Morina, vicino a Kukes, dove sono passati già centinaia di migliaia
di kosovari. I serbi li scaricano in mezzo alla strada. C’è da
camminare. Hidaverdi prende per mano la sua famiglia e parte. La moglie
è malata di cuore, ma loro sono fortunati. Sono insieme. I bambini
sono piccoli, ma possono camminare da soli. In una lunga colonna composta
da vicini di casa e da perfetti sconosciuti, seguono la strada tortuosa
verso il confine.
A un certo punto si fermano. Un gruppo paramilitare separa le donne dagli
uomini. Chiede agli uomini 100.000 marchi (circa cento milioni), se rivogliono
le loro donne. Gli uomini offrono tutto quello che hanno.
I paramilitari serbi accettano. Hidaverdi, vede gli uomini e le donne
attraversare di corsa la strada che li divide. E abbracciarsi. E piangere.
Lui è stato fortunato, sua figlia è bellissima, ma non ha
ancora l’età per diventare un oggetto sessuale.
Riprendono il cammino. Sabiha, la moglie, qui prende l’iniziativa. Arrivati
al confine, ancora una fila. Devono consegnare i documenti (senza i quali
non potranno tornare, non potranno ritirare i loro soldi in banca). Sabiha
nasconde qualcosa dentro i pantaloni. Consegna i dinari che ha in tasca,
qualche marco (76 per la precisione) e riesce a passare. Ha in tasca
tre passaporti. E’ fortunata, perché può provare la sua
identità, potrà, un giorno, forse dimostrare di essere la
proprietaria di quella casa, ora in vendita (se non già fatta
saltare) a Pea, in Kosovo.
Dal confine serbo c’è un pezzo in salita, prima di arrivare alla
famosa sbarra rossa del confine albanese. Lì ci sono le camere
delle televisioni di tutto il mondo. Non è l’arrivo di un profugo,
è l’arrivo di una star. La CNN trasmette in diretta mondiale il
loro passaggio del confine. Chi lo avrebbe detto, solo 10 ore prima?
E’ sera. Non ci sono mezzi di trasporto e loro cinque continuano per altri
due Km verso Kukes, la cittadina più vicina, ma le gambe cedono
dopo due km. Li raccoglie l’esercito albanese. E li porta al cinema della
città trasformato in dormitorio. A quel punto Hidaverdi e Sabiha
non parlano più. Entrano in uno stato confusionale. I bambini tacciono,
troppo stanchi per piangere e dopo poco si addormentano. Attorno la disperazione,
non c’è acqua, non c’è cibo, non ci sono bagni, ne’ materassi.
Ma almeno sono al coperto. Fuori fa freddo, qui è montagna. Si
siedono sulle loro valige. Di quella notte non ricordano nulla.
E’ già mattino. Le strade polverose di Kukes si animano di trattori
e di profughi, mezzi militari, le camionette delle NGO. Le associazioni
umanitarie stanno appena arrivando. C’è una distribuzione dei pacchi
umanitari del World Food Program. Una schifezza molto energetica. Lo shock
è stato talmente forte che c’è qualcuno che ride.
Sabiha ascolta una conversazione e sente che arriveranno dei pullman
che li porteranno a Tirana al centro sportivo. Che fortuna! Prende le
sue cose, trascina marito e figli al pullman. Per fare i 208 km
di curve e buche che li separano dalla capitale albanese ci mettono 10
ore. Ma almeno nel pullman sono (solo) in 50. Il centro sportivo è
organizzato come centro di smistamento: sul parquet da basket un’isola
di tavoli dietro i quali i volontari distribuiscono pasti caldi e coperte.
Intorno, sulle sedie fisse decine di migliaia di sfollati. Si siedono
ancora una volta. Aspettano. Cosa non lo sanno. Ma ancora una volta la
loro buona stella li aiuta. Un’ora prima una donna di 30 anni, Sasha,
albanese e cristiana, aveva litigato con il marito perché ‘voleva
fare qualcosa per il Signore’. Sorda alle caute proteste del marito autista,
aveva preso l’autobus, raggiunto il centro sportivo. Ha chiesto a una
famiglia a caso se volevano andare a casa sua, ma erano in 12 e
troppo numerosi. Poi ha visto Sabiha e i suoi figli. Loro erano confusi:
hanno detto ‘dove abita?’. ‘Poco distante’.
Ora vivono da lei. Loro musulmani. Lei protestante.
Chiedo a Hidaverdi, cosa pensa. Mi dice: ‘sono stato fortunato. Ho perso
tutto: la mia casa, il mio lavoro, i miei amici, i miei libri. Ma ho un
tetto e i documenti e i miei figli vanno già a scuola qui ’. Lo
guardo e mi sembra che ancora non sappia, dentro di se, che le possibilità
di rivedere Pea, la sua città, sono molto, molto poche. |
Pubblicato
su Confronti.
L'inchiesta televisiva e' andata in onda
su Raidue- Protestantesimo.
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protestantesimo@fcei.it
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