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Etiopia:

Emergenza AIDS

 

 

 

 

 

 

 

Addis Ababa, aprile 2003

 

“Ne bevo 5 litri al giorno” dice Mariam  “e ora sto bene”.   E aggiunge con un enigmatico sorriso senza aspettare la domanda: “HIV. Ma non passo più neanche al centro medico per i test di controllo.”  E perché? “Sto bene!”

Vista dall’alto, Addis Abeba stupisce per i riflessi dei suoi tetti di lamiera. Una grande metropoli, piena di baracche. I palazzi a più piani sono pochi e isolati. 2500 metri sul livello del mare si fanno sentire quando ti incammini col fiato corto verso la fonte Miracolosa di S. Maria. Ti vengono incontro i pellegrini, i malati di ogni età,  gravati dal peso dei loro bidoncini per olio di automobile, riempiti d’acqua benedetta.

 

L’abba, il prete ortodosso, ha una specie di crosta sul labbro inferiore, come una foglia di tabacco rimasta appiccicata. E’ un segno distintivo di santità. I fedeli passandogli accanto baciano la croce di legno che ha in mano e il lembo del suo vestito: “Venga in ufficio, abbiamo le prove documentate delle guarigioni” Da quali malattie? “ Da tutte” Anche l’aids? “Anche l’aids”.

 

Donne e uomini  di ogni età si lasciano colare addosso l’acqua della fonte miracolosa, come potessero lavarsi via la peste del XX secolo. I loro gesti mi richiamano alla memoria un romanzo: Tempo di Uccidere di Ennio Flaiano, vincitore del premio Strega 1948. In esso si narrano le disavventure di un ufficiale dell’esercito di occupazione italiano in Etiopia. Perdutosi in una foresta, il protagonista incontra una donna  eccezionalmente bella, Mariam (Maria), che sola e nuda si lava con studiata lentezza sotto una piccola cascata. I due riescono a comunicare  tracciando disegni su un libretto. ‘Mai’ dice lei in amarico indicando l’acqua. Poi i due si guardano, si toccano e si amano. Ma la notte, per errore, il soldato la ferisce con una pallottola vagante. E, quando capisce che non c’è possibilità di salvarla (sono troppo lontani dal campo), le copre il volto con un telo bianco di cotone e le spara alla testa. In seguito scoprirà che Mariam aveva la lebbra e probabilmente anche lui è stato contagiato. La storia ha un finale amaro che non è il caso di  rivelare per chi avesse voglia di rileggere questa straordinaria metafora del rapporto tra l’italiano e queste terre di conquista: fascinazione, violenza, contagio. Curiosamente i malati in fila hanno la stessa paziente indolenza della Mariam di Flaiano.

 

La fonte si trova nel punto più alto della città Addis Abeba. Qui  Menelilk II decise di fondare la sua capitale  e di chiamarla grande fiore, in amarico Addis Abeba. Ma a poco più di 100 ani di distanza questo è un fiore malato. In città il 17,5% della popolazione ha l’HIV, quasi due persone su dieci.   versare.

 

La folla si raduna volentieri dopo la doccia e la raccolta dell’acqua miracolosa. Aspetta l’autobus che la riporterà a valle. Le mucche e le capre sradicano i ciuffetti d’erba comparsi con le prime piogge. Come accade tra tutti i malati del mondo, bastano due parole d’interessamento per ricevere una completa e circostanziata anamnesi . Un giovane dai lineamenti ieratici e gentili, si copre il capo con un velo scuro, sussurra il suo nome come se fosse l’ultimo sospiro. In Etiopia parlare a bassissima voce è segno di rispetto e di buona educazione. Lui non ha certezza, ma spera, crede. E’ uno studente, solo. Sulla causa del contagio abbozza un sorriso malizioso, come dire: “ma come, non l’hai capito?” Scompare improvvisamente.  Anna invece, minuta e rotondetta, occhi grandi e neri ma arrossati, è qui con altre compagne di sventura ma il suo è un atteggiamento positivo, vitale. Racconta dei suoi 3 figli lasciati al paese, del suo desiderio di tornare immediatamente dopo la guarigione. Sembra convinta che si tratti di una questione di giorni. Dice di essersi accorta del contagio solo dopo la morte di suo marito. Faceva il camionista e questo dettaglio si rivelerà importante.

 

Nonostante il prode e orgoglioso popolo etiope celebri ancora, ogni anno in febbraio, la vittoria di Adua sugli italiani (1896), il quartiere centrale della capitale si chiama Merkato (con la kappa). Un’enorme casbah intasata di microbus Toyota adibiti al trasporto pubblico, camion  e un intero repertorio di auto d’epoca circolanti tra cui spiccano 1100 Fiat, 600, 850 sport e 131 Mirafiori.

 

A sera, quando i negozi chiudono e l’illuminazione stradale non si accende perché non c’è,  il quartiere si divide in due.  A nord la zona a luci rosse dove ci sono le professioniste del mercimonio. A sud quella, diciamo così, residenziale, dove invece la prostituzione si pratica estemporaneamente e nelle case dei locali. Le ragazze appena arrivate dalla campagna prendono in affitto  una parte delle  baracche di 9 metri quadrati, per il tempo strettamente necessario a intrattenersi con i loro clienti.  Nel frattempo la vita della famiglia continua: unico divisorio uno straccio appeso a mo’ di tenda. Il costo della prestazione 5 birr (55 eurocent). E’ molto probabile che il marito di Anna abbia contratto qui la malattia. I clienti sono gente di passaggio per il Merkato.  Sono loro i portatori dell’infezione che si sparge così per tutto il territorio nazionale.

L’Aids e’ arrivato in Etiopia relativamente più tardi a causa della guerra che limitava gli spostamenti. “Qui le ragazze hanno poca scelta: o serve o prostitute”. Mi dice Eden, una giovane operatrice sociale in forza a Medici Senza Frontiere. La sera dimette i suoi abiti griffati per incontrare le prostitute. Attraversiamo la strada fangosa male illuminata dalle luci interne delle baracche. S’è creato un corteo di curiosi e di postulanti. Nessuno si stupisce della presenza di un bianco in questa zona piuttosto pericolosa. Non ne hanno il tempo. Una ragazzina ammicca. La sua giovane età  fa dubitare che il suo sguardo implichi un invito sessuale. Forse vuole solo caramelle, come il bambino che non la finisce di ripetere ”Mister, mister!” Eden smentisce “ E’ quello che pensa. Cominciano molto giovani. Con queste, nemmeno ci proviamo più: sono occasionali, non hanno una casa, oggi ci sono domani chissà”. E la donna bambina agita la mano in un malinconico saluto.

 

Scortati da un paio di poliziotti che non sappiamo se temere o seguire, raggiungiamo la via principale. Addossate a un muro scandalosamente bianco  le ragazze aspettano. Quella stupida canzone Faccetta nera diceva il vero: sono proprio belle, le abissine. Certo non aspettavano nuovi duci o nuovi re,  ma il fattore del turismo sessuale ha pesato non poco nel convincere i nostri soldati e i coloni a partire per questi altipiani. I poliziotti ci invitano perentoriamente a salire sulla nostra Land Rover: siamo stati troppo in giro (forse 15 minuti). Tra poco qualcuno si infastidirà della nostra presenza. Saldato il conto agli agenti e al bambino ‘Mister, mister’, imbocchiamo le vie del quartiere a luci rosse. Le lampadine sono doverosamente rosse, illuminano strade deserte e baracche più grandi, alcune con le porte aperte, molte con le porte chiuse, segno che l’attività ferve. La prostituzione è così diffusa che raramente ci sono dei protettori.  Le donne esercitano in piena libertà, magari pagando il pizzo al poliziotto di quartiere.

 

“In questa zona ci sono le professioniste. Noi desideriamo insegnar loro a conoscere e rispettare il proprio corpo,  convincerle ad usare il preservativo. La chiesa ortodossa etiope non ne condanna l’uso, come invece da voi” Eden  apre una manifesto pubblicitario: su un verso due innamorati (rigorosamente di due etnie diverse) si abbracciano felici. La scritta in amarico dice pressappoco ‘usare il preservativo fa bene all’amore’ Sull’altro verso, 4 immagini mostrano le istruzioni per l’applicazione e l’uso dello stesso.

 

Più tardi scoprirò che questi manifesti sono attaccati sulle porte a vetri di molti uffici amministrativi. Se entri vedi gli innamorati. Se esci….

 

Sono 3 milioni i sieropositivi in Etiopia, su una popolazione di 67. E le cifre aumentano di anno in anno perché si è stabilito un circolo vizioso tra povertà e diffusione del male: il 95% delle persone che vivono con l’HIV si trova infatti nei paesi poveri. L’Etiopia è il terzo paese più povero del mondo. E’ appena uscita e forse non del tutto dalla guerra contro l’Eritrea. Ma spende ancora il 12,5 % del PIL in armamenti (dati della CIA). Il debito estero, se pur ridotto, strangola l’economia del paese. Come la guerra o un qualsiasi disastro naturale, la malattia  costringe le famiglie a vendere i propri beni, gli animali o le piante, a spendere tutti i propri risparmi per comprare cibo e medicine. Spesso i bambini non vanno a scuola per assistere i malati o sostituirli nel lavoro dei campi. Ma talvolta non basta e la produzione agricola decresce perché nessuno se ne può occupare.  

 

E poi c’e’ la siccità. Dal 1984 in poi, la desertificazione sommata alla diminuzione progressiva delle  piogge ha ridotto drammaticamente la produzione agricola, su cui si basa l’economia nazionale. Nel 2002 -2003, secondo dati forniti dal governo e confermati dal Programma di Alimentazione Mondiale, 11 milioni e mezzo di etiopi rischiano di morire di fame, se non ci fossero gli aiuti umanitari, che coprono il 10% del PIL. Nel solo mese di Aprile sono state necessarie  137.530 tonnellate di cereali, anche se la razione pro capite è stata ridotta a 12,5 kg al mese. “Basteranno fino a Maggio”, ha detto Georgia Shaver  responsabile del Programma per l’Etiopia – “ma il prossimo raccolto, se ci sarà, si terrà a luglio.  In queste condizioni è chiaro che nessuno ha i soldi per comprare medicine e  preservativi. 

 

Sulla piazza con la statua equestre di re Menelik II, un cartello sbilenco annuncia: centro medico. Un camion per la raccolta dell’immondizia ostruisce l’accesso. Credo che stia facendo manovra. No, sta parcheggiando tra i malati in attesa. Evidentemente il piazzale ospita  sia le strutture sanitarie che il deposito dei mezzi. Il centro medico è la struttura di base del sistema sanitario etiope: tre stanzette su un piazzale di terra battuta, attrezzate con qualche lettino. Su quattro panche esposte al sole, alcune donne coperte dal tradizionale velo di cotone bianco, parlottano concitate. Alcune si proteggono la bocca. “Noi siamo qui per aiutare queste persone ad affrontare il test”, mi dice Mulu, una nurse sulla cinquantina, gli occhi comprensivi.  “Quando iniziano ad apparire i primi sintomi, nessuno pensa all’HIV. Noi  consigliamo loro di fare il test e li prepariamo ad una eventuale risposta positiva.”  Mulu appartiene a una delle tante ONG che operano in Etiopia, in collaborazione con il governo.  “Diciamo loro che si può convivere con l’HIV, se ci sono le medicine necessarie”. 

 

Medici Senza Frontiere ha promosso  sin dal 1999 la campagna per l’accesso ai farmaci essenziali, per garantire le cure a coloro che non possono permettersi di pagare le medicine. L’idea è che l’accesso ai farmaci deve essere considerato un problema umanitario e che la legge del profitto deve tenerne conto. Le case farmaceutiche e l’Organizzazione Mondiale del Commercio hanno accettato di consentire la produzione dei farmaci  a basso costo (rinunciando ai proventi derivanti dai brevetti) e alla vendita a prezzi  ridotti in alcuni paesi dove l’AIDS è un’emergenza nazionale.

 

Il costo della terapia annuale per paziente non ospedalizzato si è così abbassato da 10.000 a 300 dollari. Ma quanti se la possono permettere in un paese in cui il reddito medio annuo è di 110 dollari?  Il paese che beneficia di questo trattamento speciale deve però ottemperare ad alcuni obblighi, tra i quali il fatto che il corpo medico deve avere una specializzazione ad hoc per il trattamento del virus e la prescrizione delle medicine. 

 

Di questo si occupa Tedlà Mekunnen, uno dei dottori etiopi che completano la missione di Medici Senza Frontiere  “Il nostro è un progetto onnicomprensivo per la prevenzione e il controllo dell’HIV. Ci occupiamo del training del personale medico  e distribuiamo medicine  per il trattamento della malattia. L’epidemia si sta diffondendo rapidissimamente. Non c’è famiglia che non abbia un parente malato o vittima del contagio. Per questo  interveniamo soprattutto nella prevenzione, abbiamo molti progetti per sensibilizzare l’opinione pubblica E’ questa la priorità. Altrimenti o la miseria o l’AIDS annienteranno questo paese.”

 

 

 

Pubblicato su Diario.

 

L'inchiesta televisiva e' andata in onda su Raidue- Protestantesimo.

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